LA TARTANA CHIOGGIOTTA
Di Mario Marzari
Il termine tartana è ben noto nel Mediterraneo e potrebbe derivare dalle denominazioni di navigli più antichi: la tarida o la tarta, dal basso latino, oppure dal provenzale moderno tartano, corrispondente a uccello da preda, o ancora dal provenzale moderno tartana, col significato di falcone.
In Adriatico si hanno notizie di tartane già dal XIV secolo, come ci specifica E. Bellemo nel suo contributo alla poderosa opera “La laguna di Venezia”, ma vi sono concrete difficoltà nell’interpretare i dati dell’epoca e le citazioni, visto che allora erano diffuse sia tartane di piccolo cabotaggio, sia tartane da guerra, denominate tartane grosse, oltre a quelle da pesca dette pescherecce. In questo caso a noi interessa quest’ultima, una delle imbarcazioni da lavoro più antiche dell’Adriatico, che ha segnato la storia della marineria di Chioggia, dove anticamente era più nota come nascara. Le sue origini si perdono nel tempo e si possono forse far risalire alle antiche navi venete, così diffuse una volta nel bacino adriatico.
Dalla struttura e dalle linee dello scafo che la caratterizzavano – nelle forme a noi note – risulta una vera e propria “nave” a fondo piatto e molto robusta; un bell’esempio di come potevano essere le varie imbarcazioni a fondo piatto che anticamente caratterizzavano la flotta mercantile veneziana.
Quest’imbarcazione costituì il nerbo della flotta da pesca chioggiotta allorché, nel XVI secolo, deviate le acque del fiume Brenta verso Chioggia per tenere libera la laguna, i continui depositi del fiume limitarono l’agibilità del porto, provocando la dequalificazione della fiorente flotta mercantile, e indirizzando imprenditori e marinai chioggiotti verso altre attività tra le quali la pesca. Si organizzarono le famose compagnie per pescare in tutto il bacino adriatico, che i chioggiotti conoscevano molto bene: c’era quindi bisogno di un’imbarcazione robusta che consentisse la vita a bordo per lunghi periodi, ma a fondo piatto per essere impiegata anche nella pesca a strascico. Le tartane pescavano a strascico, sia singolarmente sia in coppia, con le reti cocchia, tartana e grippo, e a parangala, ossia “coi ami da pièlego”. Da tale termine è derivato il nome pièlego, con cui venivano denominate le tartane più piccole che solitamente si dedicavano a quest’ultimo tipo di pesca. Poiché risultava costosa per la pesca costiera e non adatta al cabotaggio, non trovò molta diffusione al di fuori del circondario di Chioggia.
La tartana chioggiotta raggiunse il suo massimo sviluppo attorno al XVII secolo, la sua epopea subì un brusco arresto quando, a seguito delle continue rimostranze dei pescatori rovignesi per la pesca a strascico indiscriminata dei chioggiotti, il Senato della Repubblica di Venezia, il 9 agosto 1770, emanò un decreto che impediva alle tartane di Burano e Chioggia di recarsi a pescare nelle acque istriane. Poi non vi fu più la necessità di costruire queste grandi imbarcazioni, prevalentemente impiegate dalle compagnie per recarsi nelle acque orientali dell’Adriatico, ricche di pesce, e invece ricevette impulso l’uso del bragozzo, per la pesca costiera e lagunare. Venuto a conoscenza dell’immediata riduzione della flotta di tartane, passate da 188 a 154 unità in circa un decennio, il 31 marzo 1781 il Senato abrogò le precedenti disposizioni; nonostante ciò la decadenza della tartana risultò inevitabile. Ormai i costruttori chioggiotti avevano migliorato il bragozzo ingrandendolo e irrobustendolo, in modo da renderne possibile l’impiego anche per la pesca d’altura.
Dato che questa barca, più versatile, costava quasi un terzo della tartana, impiegava un equipaggio ridotto e offriva profitti superiori, il processo fu inarrestabile. Nel 1837 le tartane erano complessivamente 108, per ridursi a 45 nel 1866, fino a quasi scomparire nel 1891: erano rimaste solo due tartane di proprietà dei fratelli Rossi. Poi questa imbarcazione scomparve e si perse totalmente nella memoria dei marinai e degli storici del settore, pur rimanendo immortalata da Luigi Fincati in una tavola del noto “Souvenirs de Marine” (1886) dell’ammiraglio E. Paris.
Il recupero storico di questa barca si deve essenzialmente alle ricerche eseguite nel corso della realizzazione della mostra “Il bragozzo nella Marineria tradizionale dell’alto Adriatico” (1979) a Chioggia. Per la circostanza furono attentamente analizzate le pubblicazioni, i manoscritti, i disegni e le foto conservati negli archivi e biblioteche della cittadina; fu svolta anche un’indagine nei tradizionali squeri. Dalla collaborazione della signora Naccari, della biblioteca “C. Sabbatino” di Chioggia, di don Dino De Antoni per gli archivi ecclesiastici, di Carlo Ramelli del Museo storico navale di Venezia e soprattutto dalle indicazioni e ricordi del maestro d’ascia Giuseppe Frizziero sono venute le numerose indicazioni per il recupero strutturale della tartana da pesca. Sono stati infatti individuati i preziosi manoscritti di Angelo Marella e in particolare quello di Antonio Camuffo, contenente la descrizione dettagliata della medesima, oltre agli schizzi di Aristide naccari, eseguiti nel 1877 a bordo di una di queste, che ne illustravano proprio le specifiche caratteristiche.
E’ stato poi possibile riconoscere un modello di questa tipologia nel seminario vescovile e un altro, didattico, conservato nel Museo storico navale di Venezia, dove erano entrambi classificati come “bragozzi”. Così si è potuto realizzare uno spaccato con la specifica di tutti i singoli pezzi che componevano la struttura dello scafo, utilizzando la precisa nomenclatura originale di ognuno di essi; è inoltre stato possibile eseguire il rilievo del bellissimo modello del 1870 – esposto a Venezia – da cui derivano i disegni riprodotti in queste pagine.
Le tartane erano costruite a Chioggia e più raramente anche a Burano; lo scafo raggiungeva lunghezze variabili tra i 16 e i 21 metri con un rapporto lunghezza/larghezza che si aggirava intorno a 3,5; il suo equipaggio poteva variare da 3 a 7 uomini più il mozzo. Aveva fondo piatto e, pur mantenendo un’opera morta molto spaziosa e funzionale per la pesca, presentava linee d’acqua filanti. A seconda della lunghezza si distinguevano in: grandi, mezzane, piccole e piéleghi. La prua era rotonda, slanciata e molto alta mentre la poppa era più tozza e asimmetrica, per consentire il sollevamento del pesante timone a calumo (mediante il robusto paranco detto senale) che doveva bilanciare il centro velico e limitare lo scarroccio. Presentava sul ponte un boccaporto centrale a forma trapezoidale, che così lasciava spazio in coperta per la sistemazione del topo, la barca di servizio.
La tartana veniva armata con due alberi, che passavano per le mastre ricavate sulla corsia centrale per terminare nelle scasse sul paramezzale; gli alberi erano attrezzati con vele al terzo e tenuti in posizione con sartie a colonna. La vela di prua aveva dimensioni ridotte rispetto a quella di poppa e l’albero di trinchetto era fortemente inclinato in avanti, mentre quello di poppa risultava ortogonale. Le due vele erano alzate alla sinistra degli alberi, così da lasciare libero il lato destro per il sollevamento delle reti; qualche volta veniva armata anche una polacchina, distesa a prua con uno spontéro. Sulla cima degli alberi si poneva il caratteristico mostravento chioggiotto, denominato penélo.
La sistemazione dei remi per la voga era come sulle antiche navi venete; contrariamente alle barche di laguna, infatti, non si utilizzavano le forcole, ma i remi posti negli appositi fori di alloggiamento ricavati nelle murate, tre per parte.
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